Perché gli investitori sono irrazionali? – Parte 2
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- Finanza comportamentale 3886 hits
- Prima pubblicazione: 23 Maggio 2021
«Le azioni degli uomini non scaturiscono neppure per la centesima parte da riflessioni razionali. Si può essere pienamente convinti dell’assurdità di un certo comportamento, e tuttavia attuarlo con fervore».
Hermann Hesse
Agisco in base a quello che so
Il secondo dei due fraintendimenti sul funzionamento del rapporto tra mente e azione è quello che ci porta a pensare che noi agiamo in base a ciò che sappiamo o sentiamo.
Si tratta di una grossissima illusione.
Se io consulente finanziario ti chiedo, mentre sei tranquillamente a sedere sulla comoda poltrona del mio ufficio con una tazzina di ottimo caffè in mano, “qual è la tua propensione al rischio?” e fuori è una bella giornata, il mercato sta salendo da un po’ di mesi ed hai una liquidità di mezzo milione di euro sul conto corrente pronta per essere investita… una possibile risposta potrebbe essere “sono disposto a rischiare abbastanza, non mi spaventa un −10% o un −20%”.
Bene, non mi stai dando una valutazione della tua reale propensione al rischio: mi stai dicendo come ti senti in quel preciso momento.
La domanda è formulata male, è inutile. Il consulente che pone questa domanda senza approfondire fa male il suo lavoro, perché è una domanda la cui risposta non serve a niente.
A volte, la propensione al rischio viene valutata soltanto alla luce di un breve questionario: in tal caso, ciò che viene scritto è ancora più inconcludente.
Che cosa dovrei allora chiedere?
In primis, dovrei domandare a quel cliente qual è l’intenzione che ha nei confronti del capitale che vuole investire. Spesso, in modo poco rigoroso, l’intenzione viene interpretata come lo scopo: è un’approssimazione accettabile.
Se vuoi investire 500 mila euro, quei 500 mila euro con quale scenario futuro combaciano? In altre parole, qual è la tua intenzione di utilizzo di quel capitale? Li vuoi impiegare in modo che tra 20 anni tu possa darli ai tuoi figli per comprarsi una casa? Li vuoi tenere liquidi come un tesoretto a cui attingere se c’è un problema di salute o una voglia da soddisfare? Vuoi che sia un capitale che, prendendoti tutti i rischi del caso, tra vent’anni abbia raddoppiato o triplicato il suo valore?
Qual è la tua intenzione?
Perché questa è la domanda principale di tutta la conversazione con il cliente?
Perché ciò che genera le nostre azioni e i nostri comportamenti è il significato all’interno del quale una situazione si presenta a noi. Questo è il passaggio più difficile, che la maggior parte delle persone non sa o non capisce, compresi molti psicologi.
Il significato che le cose e gli eventi hanno per me varia in base all’intenzione all’interno della quale li incontro.
Se io ho intenzione di piantare un chiodo in una trave di legno e non ho un martello, nel momento in cui vedo un grosso sasso per terra esso assume – per me – il significato di martello. Se lo stesso sasso lo vedo mentre sto provando a tenere aperta la porta di casa che si chiude da sola – incontro, cioè, quello stesso sasso all’interno della mia intenzione di fermare la porta di casa, quel sasso mi si presenta come fermaporta.
Le mie azioni, il mio raccogliere il sasso per piantare un chiodo o per fermare la porta, sono date dal significato che le cose hanno all’interno della situazione in cui le incontro. In altre parole, la situazione e le cose mi sorgono in un certo modo a seconda dell’intenzione che ho, cosciente o incosciente.
Un sasso, in sé, non ha un significato particolare: è un sasso. All’interno dell’intenzione di piantare un chiodo e in assenza di un martello, il suo significato è quello di martello. All’interno dell’intenzione di bloccare la porta di casa che si chiude da sola, il suo significato è quello di fermaporta.
Le mie azioni non sono date da quello che sento o che so. In un famoso esempio fatto da Heidegger durante i seminari di Zollikon, in Svizzera, a cui partecipava un gruppo di psichiatri (gli psichiatri e gli psicologi sono sempre ossessionati dalla domanda “perché l’uomo fa quello che fa?”), il famoso filosofo tedesco disse: ti alzi in piedi per chiudere la finestra non perché fuori c’è rumore, ma perché vuoi leggere in pace e tranquillità.
È la tua intenzione di leggere in pace e tranquillità che ti presenta il rumore dei bambini che giocano come un disturbo; è all’interno della tua intenzione di leggere in pace che prende forma il comportamento di alzarsi e chiudere la finestra.
Se il consulente finanziario non ha con il suo cliente una conversazione che chiarisca esattamente le sue intenzioni di investimento, alle prime oscillazioni del mercato il cliente non saprà come gestire la sua paura, perché sarà la sua paura a dettargli quello che lui deve fare.
Se invece l’intenzione di un investimento della durata di 20 anni è chiara, nella parte successiva della conversazione (necessariamente posteriore alla definizione dell’intenzione), si potrà allora prospettare al cliente come nello scenario scelto, nel futuro che lo aspetta, sicuramente si ritroverà in momenti di perdita o di forti diminuzioni di guadagno, con i mercati in calo, col sentimento di paura e il desiderio di disinvestimento.
Sono tutte cose che fanno parte di quello scenario. Il significato di quegli accadimenti sono dati fin dall'inizio, in funzione dell’intenzione dell’investitore: triplicare il capitale in vent’anni, magari per lasciarlo in eredità ai figli.
Il significato di quegli accadimenti non sarà più quello di costituire degli intralci, degli intoppi, delle cose che non dovrebbero accadere: sono normali eventi associati al futuro scelto dall’investitore. Provando a evitare o ad alterare quegli eventi disinvestendo o modificando il piano di investimento iniziale, non si fa altro che sabotare quel futuro, quell’intenzione.
Ora, la comprensione di questo fraintendimento garantisce che l’investitore, quando quella paura gli si presenta, non disinvesta?
No, non lo garantisce, perché bisogna vedere qual è la sua capacità di gestione di quella paura. Spesso però, quello che manca non è l’investitore intelligente: è l’incapacità del consulente di dare all’investitore gli strumenti per interpretare la propria paura. E non sono certo strumenti finanziari.
Il riconnettersi all’intenzione quando sorgono le paure va inteso nel senso che un crollo del mercato e il mantenere l’investimento fanno parte del viaggio scelto, non sono degli imprevisti.
Quello che spesso non riusciamo a capire è che il crollo del mercato, così come la malattia, la morte delle generazioni più anziane di noi, le pandemie e molte altre cose, non sono degli imprevisti: sono la normalità.
Perché, allora, ci relazioniamo a questi eventi come se fossero degli imprevisti?
Perché non guardiamo con autenticità alla natura del futuro: se io voglio fare un investimento che duri vent’anni su strumenti finanziari volatili, dovrò dare per scontato che sarà un viaggio sulle montagne russe. Altrimenti, sarebbe come salire sulle montagne russe con l’aspettativa che si comportino come il brucomela: le montagne russe non sono il brucomela; nelle montagne russe ci si ritrova a testa in giù diverse volte e si urla parecchio.
L’unica cosa da non fare – si sa – è scendere dalle montagne russe in corsa.
Forse, laddove nel sistema c’è un grosso gap, non è soltanto nella poca competenza finanziaria dell’investitore medio: è nella preparazione deficitaria di chi fa il mestiere del consulente finanziario e di chi forma le persone a fare il consulente finanziario.
L’investitore finirà col parlare con chi gli sa spiegare molti concetti finanziari: un approccio insufficiente per gestire una situazione di paura nel modo più utile. E così ci si ritrova, da un lato, con molti investitori che accusano di incapacità i consulenti finanziari; dall’altro, con i consulenti che pensano che in certi frangenti gli investitori impazziscano e diventino irrazionali.
Qual è, allora, il ruolo della conoscenza in tutto questo?
La conoscenza è sempre utile quando è inserita all’interno di un’intenzione chiara. Quando l’intenzione è chiara, la conoscenza si mette al suo servizio.
In altre parole, la conoscenza è utilissima, ma ciò che sappiamo aiuta soltanto quando è al servizio di un progetto. Sennò, rimane nel mondo delle idee di Platone.
La mia conoscenza del martellare mi si presenta alla coscienza nel momento in cui prendo il martello in mano e pianto il chiodo.
La conoscenza può aiutarmi a essere consapevole del modo in cui una situazione si presenta a me, ma non è la conoscenza che modifica le mie azioni. Nel momento in cui io sono consapevole dell’intenzione, del progetto e del modo in cui la situazione mi si presenta, allora la conoscenza e il sapere mi danno una mano.
Questa è la grande intuizione di Heidegger, che parla dell’essere umano come un essere costantemente implicato nel mondo. Io sono sempre in un progetto.
È la mancanza di chiarezza del progetto in cui sono che non mi permette di leggere correttamente la situazione che si presenta davanti a me.
Il problema dell’investitore non è che non sappia leggere i mercati (quelli nessuno li sa leggere, se per leggere si intende prevedere): il suo problema è che non sa leggere i propri stati d’animo all’interno del viaggio che si chiama investimento finanziario: non sa come categorizzarli, interpretarli; non sa cosa farci.
Di conseguenza, gli va dietro.
Cambiare il proprio approccio è difficile?
Forse. L’alternativa, però, è continuare a percorrere delle strade che non portano da nessuna parte.
Non serve studiare Heidegger e Jaspers, ma non si può prescindere dal meccanismo di funzionamento della mente quando i nostri clienti sono, in primis, persone.
Potete trovare la prima parte dell'articolo al seguente link:
Perché gli investitori sono irrazionali? 1. La mente fa quello che io voglio che lei faccia
Da un'intervista di Andrea Gonzali a Lorenzo Gallinari.