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Psicologia e finanza - Daniel Kahneman

perché uno psicologo vince il premio Nobel per l'Economia?


25Mar2024

Information
Andrea Gonzali Finanza comportamentale 6892 hits
Prima pubblicazione: 06 Dicembre 2018

«One of the funny things about the stock market is that every time one person buys, another sells, and both think they are astute».

William Feather

Il sito del Premio Nobel cita: il premio Sveriges Riksbank nelle Scienze Economiche in Memoria di Alfred Nobel 2002 viene equamente diviso tra Daniel Kahneman per aver integrato scoperte derivanti dalla ricerca psicologica con le scienze economiche, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d'incertezza, e Vernon L. Smith, per aver condotto esperimenti di laboratorio con strumenti empirici di analisi economica, specialmente nello studio dei meccanismi alternativi di mercato.

Il primo, uno psicologo (famoso da quel giorno in poi); il secondo, un economista (sconosciuto alle masse a tutt’oggi) che fa ricerca economica con dati psicologici.

Insolito? Certo. Strano? No.

Proviamo a capire il perché.

Quello che Daniel Kahneman (qui ci occuperemo solo di lui) ha fatto, è reimpostare epistemologicamente lo studio di gran parte dell’economia.

L’epistemologia, grosso modo, riguarda come usiamo, entriamo in possesso e ci occupiamo della conoscenza (epistème è una traslitterazione del termine greco che significa "conoscenza scientifica").

Di economia trattava già Aristotele che, lo si sa, si occupava un po’ di tutto. Dopodiché, tanto silenzio fino ai mercantilisti e ai fisiocratici: Francia e Inghilterra del secolo XVII-XVIII.

Così nasce la disciplina dell’economia, che come spesso accade a materie che vogliono provare a spiegare comportamenti umani (individuali o aggregati), si fonda su alcuni assunti teorici a partire dai quali cerca di spiegare i fenomeni del mondo.

Il Quesnay, da buon medico quale era, spiega ad esempio che la circolazione delle merci funziona più o meno come la circolazione del sangue nel corpo umano.

Parte da un’analogia, e paragona i funzionamenti economici a quelli fisiologici umani. Per definizione, un’analogia consiste nello spiegare un fenomeno citandone un altro. Un’analogia, in realtà, non spiega mai un granché.

I classici che vengono in seguito, Smith, Ricardo, Stuart Mill fino allo stesso Marx, partono da idee, assiomi quasi, teorie (direbbe Aristotele), per poi sviluppare conclusioni che sarebbero più o meno riscontrabili nel mondo reale.

Quindi, epistemiologicamente, l’economia parte come un insieme di postulati di cui si è andati poi a cercare la veridicità nel cosiddetto mercato.

Man mano che il mercato stesso smentiva di netto le grandi costruzioni teoriche, venivano coniate espressioni come “anomalie di mercato”, “crisi”, e metafore suggestive come “bolle”, “venerdì nero”, “cigni neri” e così via.

Questa impostazione di studio, per quanto abbia dato origine a fertilissime pagine e decenni di elevatissimi dibattiti, è sempre più insufficiente per comprendere una disciplina il cui attore principale è l’uomo: consumatore, risparmiatore e investitore.

Gli studiosi delle scienze statistico-finanziare (creature recenti nell’evoluzione umana: sono comparsi solo da pochi decenni) fanno più che bene a utilizzare complessi modelli matematici per provare a predire, fittare modelli e creare scenari possibili.

L’uomo di oggi, senza la matematica, non farebbe (quasi) nulla. I modelli matematici esercitano su di noi, tra le altre cose, il fascino dell’illusione del controllo.

Più matematica c’è dietro una disciplina, più ci sembra corretta. Più ci sentiamo vicini alla verità, più ci sembra di capire il mondo e di essere capaci di scrutare anche nel futuro.

"Tough luck!" direbbero gli inglesi. L’economia e la finanza non seguono così tanto le regole matematiche.

E questo perché il soggetto operante e, di conseguenza, determinante delle dinamiche del mercato è l’uomo che, di per sé, non è soggetto a principi logico-matematici nei suoi comportamenti.

Ecco perché uno psicologo finisce per vincere il premio Nobel per l’economia. Perché dopo 2000 anni ha portato, nel dibattito economico, quei dati che dimostrano che il comportamento umano non è una variabile prevedibile né, tanto meno, controllabile.

Eh beh, direte: gli economisti non lo sapevano?

Alcuni sì, tanti no. 

Kahneman ha dimostrato, attraverso studi empirici pluridecennali di tipo psicologico-comportamentale (senza molta attenzione per l’economia, almeno in principio), che l’uomo cambia i propri criteri decisionali a seconda dei fattori di stress esterni o interni presenti nel momento in cui l’individuo opera una scelta.

Ovvero, in momenti diversi, esposto a fattori ambientali e interni diversi, l’uomo non è che attua scelte diverse: egli cambia i principi che dettano le sue scelte.

Vale qui la pena ricordare che gran parte delle teorie economiche post ottocentesche partono dall’idea dell’Homo Oeconomicus (grande amico del padre della teoria di equilibrio economico generale – quella della domanda e dell’offerta per intenderci – Léon Walras): vale a dire di un operatore di mercato la cui principale caratteristica è la razionalità.

Cosa si intende qui per comportamento razionale? 

Nell’idea di Walras (considerato da Schumpeter il più grande degli economisti, e forse non a torto), l’uomo razionale è in grado di disporre in sequenza le proprie priorità, tende sempre a massimizzare il suo livello di soddisfazione e sa analizzare e prevedere nel modo migliore gli eventi del mondo circostante. 

L’uomo? Mah... e il 1929? e il 2001? ...e il 2008?

Kahneman parte da una raccolta di dati e sviluppa col Tversky una serie di conclusioni che non smentiscono tutto quello che l’uomo ha fatto fino ad oggi in economia, ma minano la veridicità di molti assunti e postulati su cui è stata impostata l’economia, diciamo "classica", fino ad oggi.

Da buon scienziato del comportamento, non è partito da un’idea precostituita, ma si è trovato davanti una raccolta di dati a partire dai quali ha avuto delle intuizioni, che poi ha dimostrato con un’ulteriore ricerca empirica.

Che cosa ne è venuto fuori? Perché si dice che va contro alle teorie classiche?

Perché, per fare un esempio, l’individuo tende alla massimizzazione del proprio benessere economico e all’ottimizzazione delle risorse se il fattore di rischio nei confronti di una possibile perdita è sufficientemente basso da non generare quel livello di ansia e di paura che gli fa cambiare il suo comportamento abituale, ergo la sua tendenza a voler massimizzare la propria soddisfazione economica.

Per capirsi, in un’equazione matematica in cui la massimizzazione del profitto e la possibilità di una perdita sono statisticamente, probabilisticamente, uguali secondo un assioma classico, il comportamento umano dovrebbe tendere al massimo profitto.

Le ricerche di Kahneman dimostrano che in presenza di diminuzione della qualità della vita (intesa come esperienza dello star bene), la ricerca del premio massimo non è così automatica: l’operatore del mercato non sceglie necessariamente l’opzione che massimizzerebbe il profitto di un determinato investimento se quell’opzione dovesse causare la perdita di altri aspetti che determinano la qualità dell’esistenza dell’operatore economico stesso.

Ad esempio, ipotizziamo due strategie di investimento:

  • La prima permette di guadagnare il 50% in 10 anni con una probabilità del 90%. Questa strategia però è piuttosto turbolenta nel senso che, con una probabilità del 20%, nel corso dei 10 anni il capitale investito arriverà a diminuire anche del 25% (per poi, come detto, tornare a ottenere un rendimento del 50% dopo 10 anni con una probabilità del 90%).
  • La seconda strategia, invece, permette di guadagnare il 30% in 10 anni con una probabilità del 100% ed è, per di più, una strategia tranquilla in quanto, con una probabilità del 20%, nel corso dei 10 anni il capitale investito arriverà a diminuire non più di un 3%.

Molti operatori – non tutti – se chiamati a scegliere una delle due strategie, sceglieranno la seconda.

Il postulato della razionalità e della massimizzazione del profitto implicherebbe invece che, di fronte ad una scelta del genere, chiunque dovrebbe optare per la prima strategia, in quanto il rendimento atteso è nettamente superiore: 45% (50% con il 90% di probabilità) contro 30% (30% con il 100% di probabilità).

Quello di cui i postulati economici non tengono conto è che la tranquillità implicita nel non dover mai vedere il proprio investimento in pesante perdita (minimizzazione dello stress) compensa ampiamente la mancata massimizzazione del profitto.

L’operatore che sceglie la seconda strategia, quindi, non si comporta in modo razionale secondo i canoni classici dell’economia, ma i suoi criteri decisionali sono purtuttavia logici e comprensibili.

Kahneman ha iniettato nell’economia alcuni principi psicologici di base, in assenza dei quali l’economia diventa una materia asettica dove si studia il mercato come se fosse un’entità astratta, come se fosse un deus ex machina, un ente che ha una mente pensante in sé.

Invece, l’economia è una materia che ha essenzialmente a che fare con i processi decisionali dell’uomo.

Se tutta l’economia fosse così facilmente prevedibile poi, perché nella massima espressione del sistema economico capitalista che è la Borsa, i prezzi, le quotazioni delle azioni sono assolutamente imprevedibili e non razionali?

Se ci fosse la razionalità che l’economia preconizza, la Borsa non esisterebbe.

Capiamoci: grandi teorie quali la suddetta legge generale dell’equilibrio economico sono utilissime e belle, e quindi da studiare e imparare.

Non dimentichiamoci, però (come spiega Kahneman appunto), che l’accurata descrizione a posteriori di fenomeni quali il mercato non è indice di correttezza di previsioni future. Nessuna delle grandi crisi degli ultimi 200 anni è stata prevista sufficientemente in anticipo da essere evitata.

E questo perché qualsiasi modello teorico-matematico può generare soltanto quegli scenari che i suoi presupposti rendono possibili.


Da un'intervista di Andrea Gonzali a Lorenzo Gallinari.

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