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Breve storia dell'euforia finanziaria - Parte 4

Breve storia dell'euforia finanziaria - Parte 4


26Mar2023

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Andrea Gonzali Finanza comportamentale 4178 hits
Prima pubblicazione: 02 Maggio 2021

«As far as I can find, almost no one in the profession – not even luminaries like John Maynard Keynes, Friedrich Hayek, or Irving Fisher – made public statements anticipating the Great Depression».

Robert J. Shiller

Millenovecentoventinove

In finanza, nessun anno è rimasto nella memoria collettiva come il 1929.

La crisi finanziaria che si scatenò nell'ottobre 1929 fu la più devastante che il capitalismo abbia mai sperimentato. Il periodo seguente, che si estese per buona parte degli anni '30, è passato alla storia come "Grande depressione". 

I prezzi delle azioni ordinarie della Borsa di New York iniziarono a salire nel 1924 e crebbero costantemente fino al 1928, quando presero letteralmente il volo.

La salita continuò fino alla primavera del 1929, quando il Federal Reserve Board annunciò un possibile rialzo dei tassi di interesse. Il trend si arrestò momentaneamente.

Queste dichiarazioni furono accolte da molti investitori come un vero e proprio attacco: Charles E. Mitchell, l'uomo alla guida della National City Bank (che diventerà Citibank nel 1976), implicato in prima persona nella speculazione azionaria di quegli anni, replicò perentoriamente (anche a nome della propria banca):

«Sentiamo di avere l'obbligo, superiore a ogni ammonimento della Federal Reserve o di chiunque altro, di evitare ogni crisi pericolosa nel mercato monetario».

In altri termini, la sua banca si impegnava a prestare tutto il denaro necessario a compensare ogni restrizione causata dalla Federal Reserve.

Cos'è che, secondo Galbraith, faceva salire i prezzi in maniera così veemente? La convinzione che si era ormai diffusa tra tutti gli investitori: i prezzi sarebbero saliti ancora di più.

Il credito, come sottolineato dallo stesso Mitchell, veniva elargito con molta facilità e si potevano comprare azioni con un margine del 10%: il 10% veniva versato dall'investitore, mentre il 90% era sborsato con piacere da chi prestava i soldi. Si trattava di una leva finanziaria prodigiosa.

Il denaro non veniva comunque regalato; nell'estate del 1929 si pagava un tasso di interesse esorbitante per quel tempo: 7-12%, con punte del 15%.

Esistevano molte società mobiliari, tra le quali la United Founders Corporation e la Goldman Sachs, che dopo aver scoperto la leva finanziaria la usarono massicciamente, venendo apprezzate moltissimo per questa impavida gestione della liquidità.

L'acquisto di azioni ordinarie andava a gonfie vele (non quello delle privilegiate, tipicamente a rendimento fisso), tant'è che la crescita del mercato azionario riprese con prepotenza dopo la battuta d'arresto della primavera del 1929.

Il meccanismo che si era creato era semplice: gli investitori si indebitavano enormemente per comprare le azioni. Gli acquisti facevano salire i prezzi e i flussi di liquidità generati dalle prese di profitto venivano utilizzati per acquistare altre azioni, sempre in leva: si trattava di un circolo vizioso pericolosissimo:

Gli uomini più celebrati di quel periodo furono quelli che cavalcavano e spronavano il boom. I più noti furono il canadese Arthur W. Cutten; Bernard E. Smith, soprannominato per contrasto «Sell'Em Ben»; il famoso speculatore di borsa M.J. Meehan; due grandi banchieri, il già menzionato Mitchell della National City e Albert H. Wiggin della Chase; il re dei fiammiferi svedesi e finanziere internazionale Ivar Kreuger; e Richard Whitney, il più eminente e aristocratico dei broker, vicepresidente e poi presidente della Borsa valori di New York.

La speculazione non coinvolse soltanto uomini di affari e banchieri, ma anche illustri economisti. Tra questi, bisogna ricordare Irving Fisher, il più importante del suo tempo.

Fisher, professore di politica economica a Yale, partecipò molto attivamente a questa folle corsa. Oltre che per molte sue grandi intuizioni e scoperte economiche, è rimasto nella storia anche a causa di una sua ardita quanto sfortunata affermazione, pronunciata nell'autunno del 1929:

«I prezzi delle azioni hanno raggiunto quello che sembra essere un plateau permanentemente alto ».

Un altro economista del tempo, Joseph Stagg Lawrence, si spinse molto più in là dal momento che, proprio quando le azioni raggiunsero i loro valori massimi, pronunciò le frasi seguenti:

«Il giudizio unanime di milioni di persone, le cui valutazioni sono rilevate in quel meraviglioso mercato che è la Borsa, è che al presente i titoli non sono sopravvalutati. Dov'è il gruppo di uomini così onniscienti da arrogarsi il diritto di porre il veto al giudizio di questa moltitudine intelligente?».

Come sempre accade in questi casi, i pochi che osarono mettere in guardia gli investitori dal pericolo di certe pratiche speculative furono oggetto di durissimi attacchi e pesanti denunce (tra questi, Galbraith ricorda Paul Warburg e Roger Babson).

Lunedì 21 ottobre 1929 fu l'inizio della fine.

Quel giorno, la Borsa apparve da subito appesantita. Le cose peggiorarono il mercoledì seguente e precipitarono giovedì 24 ottobre, quando la telescrivente che si usava a quel tempo per trasmettere le quotazioni non riuscì a stare dietro al crollo dei prezzi. Quel giorno fu ribattezzato "Black Thursday".

Furono richiesti dei margini maggiori a chi stava comprando le azioni in leva. A quel punto, alcuni dei banchieri principali si riunirono e versarono del denaro con lo scopo di risollevare le quotazioni. Come era successo in alcune delle crisi precedenti, si credette che si potessero sistemare le cose apportando un po' di liquidità e facendo qualche dichiarazione per tranquillizzare le masse.

Il crollo sembrò arrestarsi, ma il panico si era ormai propagato. Lunedì 28 fu un altro giorno di pesantissime perdite e quello seguente, martedì 29 ottobre 1929:

Fu il giorno più devastante della storia della Borsa fino ad allora. Questa volta nulla arrestò la corsa a vendere o la probabilità di essere venduto. Non giovarono le voci secondo le quali i grandi banchieri cercavano di mettersi in salvo, il che è del tutto comprensibile. Nelle settimane seguenti, con punte particolarmente negative di lunedì, il mercato continuò a precipitare.

Gli eventi che seguirono sono tristemente noti: gli Stati Uniti e gran parte del resto del mondo attraversarono diversi anni di pesantissima depressione economica.

La Borsa iniziò un'interminabile discesa che si sarebbe fermata soltanto l'8 luglio 1932, quando il Dow Jones toccò il suo minimo assoluto del XX secolo, chiudendo a 41,22 punti. Rispetto ai massimi di meno di 3 anni prima, aveva perso l'89,2%.

Con il crollo, molti dei principali speculatori degli anni '20 fecero una brutta fine: Charles Mitchell e Albert Wiggin furono licenziati. A Wiggin venne negata la pensione. Mitchell trascorse gran parte del decennio successivo tra le sale dei tribunali. Cutten, Meehan e «Sell'Em Ben» furono chiamati davanti a commissioni del Congresso. Richard Whitney fini a Sing Sing e Ivan Kreuger si suicidò sparandosi un colpo di pistola nel 1932, a Parigi. Irvine Fisher perse diversi milioni di dollari e dovette far ricorso all'aiuto di Yale.

Come accadde in tutte le gravi crisi precedenti, le spiegazioni della crisi non presero minimamente in considerazione la speculazione e l'euforia finanziaria.

Si disse che nell'ottobre del 1929 il mercato aveva subito delle profonde e negative influenze esterne; poi, si scoprì che l'estate precedente c'era stata una flessione della produzione industriale e di qualche altro indice che veniva calcolato a quei tempi. Il mercato non aveva fatto altro che rispondere in modo razionale a questi accadimenti.

Fu l'occasione per prendere delle misure finalizzate a evitare il ripetersi di questi eventi: venne creata la Securities and Exchange Commission (ben più nota anche ai giorni nostri col suo acronimo SEC); furono prese misure per limitare i sistemi di partecipazione piramidale; furono, infine, rivisti i requisiti per poter acquistare azioni in leva.

In questa sconvolgente crisi, vi fu probabilmente un unico aspetto positivo:

Prolungò in misura eccezionale la memoria finanziaria.

Ottobre 1987

Il crollo del 19 ottobre 1987 è spesso stato descritto come improvviso e inaspettato. Quel giorno, entrato nella storia come "Black Monday", le borse mondiali – sulla scia di quelle americane – subirono un pauroso tracollo: in un solo giorno il Dow Jones perse il 22,61%, mentre lo S&P 500 riuscì a fare meglio soltanto di un paio di punti, fermandosi al −20,47%.

Questi incredibili valori rappresentano ancora oggi le più grandi perdite percentuali ottenute in una singola seduta borsistica da questi due indici azionari statunitensi.

Fortunatamente, nelle settimane successive il mercato tornò lentamente a salire, recuperando il terreno perduto in poco meno di due anni.

Si sono ipotizzate svariate cause del flash crash dell'ottobre '87. Tra i numerosi studi che vennero portati avanti per scoprirne le ragioni, Galbraith ricorda i seguenti:

  • Un'indagine commissionata dal presidente Reagan e condotta sotto la presidenza del Segretario al Tesoro Nicholas F. Brady: le cause furono program trading, portfolio insurance e non meglio identificati controlli amministrativi.
  • SEC: le cause furono il program trading e alcune strategie di vendita azionate durante il crollo.

Secondo Galbraith, questi studi non misero in luce il vero fattore scatenante della crisi: la follia della speculazione e l'inevitabile euforia finanziaria che la contraddistingue.

Negli anni precedenti al crollo, infatti, erano tornati alla ribalta i due ingredienti principali di un episodio speculativo perfetto: l'elevato indebitamento e l'ennesima invenzione finanziaria:

La leva finanziaria tornò in scena sotto forma dei take-over e dei leveraged buy-out, acquisizioni di piccole quote di capitale sufficienti a conferire il controllo di società, rese possibili dal massiccio ricorso all'indebitamento. Né poteva mancare un nuovo strumento finanziario, ritenuto di sbalorditiva novità: obbligazioni ad alto rischio e, quindi, a elevato tasso di interesse. Ma la novità, come è stato osservato, risiedeva solo nel loro nome – junk bonds, ossia obbligazioni spazzatura – rivelatosi poi assai veritiero.

Nella folle corsa per rilevare il controllo di altre società, il capitale proprio era stato sostituito dai junk bonds.

La crisi dell'ottobre 1987 fu in un certo senso prevista dallo stesso Galbraith che, all'inizio del 1987, discusse di questa eventualità in un articolo pubblicato su «The Atlantic».

Galbraith ipotizzò anche che l'impatto sarebbe stato meno devastante di quello del 1929, grazie ai numerosi meccanismi di stampo keynesiano presenti negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni '80 (assistenza sociale, ecc.), inesistenti ai tempi della Grande depressione.

Il breve saggio di Galbraith è stato scritto quando ancora non si erano verificati gli episodi speculativi più vicini ai giorni nostri, come quelli sfociati nella crisi dotcom di inizio secolo e in quella dei subprime del 2007-2009. In entrambi, è facile riscontrare tutti gli elementi tipici di ogni grande speculazione.

L'euforia finanziaria, alimentata dalla voglia di guadagnare grosse somme di denaro col minimo sforzo, si ripresenta a intervalli più o meno regolari: i meccanismi di funzionamento degli esseri umani, d'altra parte, non cambiano; né, tantomeno, varia il comportamento delle folle di investitori che ritengono di potersi arricchire in breve tempo.

È possibile fare qualcosa per evitarla e, se sì, che cosa?

Per rispondere a queste domande, la cosa migliore è leggere attentamente le parole di Galbraith. Con le sue conclusioni, chiudiamo l'ultimo dei nostri quattro articoli dedicati al suo saggio sull'euforia finanziaria.

La nostra speranza è quella di aver lasciato nel lettore un minimo di diffidenza verso quei comportamenti che incitano ai facili guadagni, all'essere più furbi degli altri o, infine, a investire utilizzando strumenti finanziari che seguono le mode del momento o di cui a malapena se ne capisce il funzionamento.

Al di là di una migliore percezione della tendenza e del processo speculativo, non vi è probabilmente un granché da fare. Una normativa che bandisca la credulità finanziaria o l'euforia di massa non è in pratica possibile. Se la si applicasse a questa condizione umana in generale, il risultato sarebbe un sistema di leggi imponente, forse oppressivo e certamente inefficace.

Il solo rimedio è, in effetti, incoraggiare lo scetticismo che associ un ottimismo troppo evidente con la probabile manifestazione di stupidità invece di collegare l'intelligenza con il dispiegamento, o comunque l'amministrazione, di grandi somme di denaro. Una delle infallibili regole che dovrebbero guidare gli investitori individuali e, inutile dirlo, i gestori di fondi pensione o di altri fondi istituzionali è la seguente: è possibile, e persino probabile, che coloro che sono associati strettamente con il denaro adottino comportamenti di autoapprovazione straordinariamente esposti all'errore. Questa potrebbe essere la lezione permanente del mio saggio.

Un'altra regola dice che quando un'atmosfera di eccitazione pervade il mercato o aleggia intorno a una prospettiva di investimento, quando si vantano opportunità uniche basate su un particolare dono di preveggenza, tutte le persone di buon senso dovrebbero tenersi alla larga: è il momento della prudenza. Forse l'opportunità c'è veramente. Forse il tesoro negli abissi del Mar Rosso esiste davvero. Una casistica abbastanza ricca fornisce tuttavia le prove che, altrettanto spesso o più spesso, vi è solo illusione e autoinganno.


Parte 1: Breve storia dell'euforia finanziaria

Parte 2: I tratti caratteristici dell'evento speculativo

Parte 3: La Tulipanomania, John Law e la Banque Royale e la Bolla del Pacifico meridionale

Parte 4: Millenovecentoventinove e ottobre 1987

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