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Misure di rischio

Misure di rischio


18Lug2024

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Andrea Gonzali Investimenti finanziari 14473 hits
Prima pubblicazione: 09 Maggio 2019

«I must tell you I take terrible risks. Because my playing is very clear, when I make a mistake you hear it. If you want me to play only the notes without any specific dynamics, I will never make one mistake. Never be afraid to dare».

Vladimir Horowitz

Il rischio può essere definito come l’incertezza del rendimento di un investimento finanziario.

Quando si conosce in anticipo l’esito di un investimento, il rischio è assente.

Anche se nella realtà l’assenza totale di rischio non esiste, alcuni investimenti vengono considerati senza rischio (risk-free). Non ci si deve stupire, però, che anche il loro rendimento reale sia zero o prossimo allo zero.

Uno degli assiomi alla base della finanza è quello di avversione al rischio. 

In base a questo assioma, un investitore:

  • A parità di rendimento, sceglierà sempre il portafoglio meno rischioso.
  • Sarà disposto ad assumersi un rischio maggiore soltanto in cambio di un rendimento atteso maggiore.

L’avversione al rischio è una caratteristica intrinseca degli esseri umani: in ogni situazione umana, l’incertezza è una fonte di preoccupazione e, nell’impossibilità di eliminarla, si prova a mitigarla.

La difficoltà, nel mondo finanziario, nasce dal fatto che rischio e rendimento si muovono sempre nella stessa direzione: quando il rischio è minore, anche il rendimento atteso scende.

Questa regola, salvo inefficienze temporanee, è sempre valida per singoli strumenti finanziari.

Nella costruzione di un portafoglio, tuttavia, esistono alcuni casi in cui assets con certe caratteristiche possono determinare l’aumento del rendimento atteso a parità – se non addirittura in concomitanza – di una diminuzione del rischio. Dobbiamo questa intuizione a Harry Markowitz, che la formulò nel 1952 e gettò le basi alla Teoria Moderna del Portafoglio (Modern Portfolio Theory).

L’avversione al rischio non deve essere confusa con la propensione al rischio: la propensione al rischio è una variabile soggettiva e può essere definita come la capacità dell’investitore di tollerare investimenti che possono assumere valori negativi o sono caratterizzati da un rendimento variabile.

Parlare del rischio in modo puramente descrittivo è utile e istruttivo, ma non è di aiuto. Il rischio deve essere quantificato.

Più precisamente, il rischio di un portafoglio finanziario deve essere misurato.

Varianza e deviazione standard

La più utilizzata misura di rischio è la variabilità dei rendimenti rispetto alla media, quantificata dalla varianza e dalla deviazione standard:

\begin{equation} Varianza=\sigma^2=\frac{\sum_{i=1}^{n}(r_i-ȓ)^2}{n} \end{equation}

\begin{equation} Deviazione\ standard=\sigma=\sqrt{\frac{\sum_{i=1}^{n}(r_i-ȓ)^2}{n}} \end{equation}

Dove:

= Rendimento del periodo i.
ȓ = Rendimento medio.
n = Numero di osservazioni.

Tra la varianza e la deviazione standard si tende a preferire la deviazione standard perché di più facile lettura: ha la stessa unità di misura dei valori osservati.

Una deviazione standard elevata implica molta incertezza e un’alta variabilità dei rendimenti: in altre parole, un alto rischio.

La deviazione standard può essere annualizzata moltiplicando il valore ottenuto dalla precedente formula per , dove t = numero di osservazioni in un anno (4 nel caso di rendimenti trimestrali, 12 nel caso di rendimenti mensili, 252 per i giornalieri e così via).

Il presupposto per la validità di queste conversioni è che i rendimenti siano i.i.d. (indipendenti e identicamente distribuiti), ovvero che la varianza sia costante. Si tratta di un'ipotesi abbastanza forte e, nella realtà, spesso non si verifica (alcuni modelli statistici di stima, ad esempio i modelli GARCH, non si basano su questo assunto).

La deviazione standard annualizzata dei rendimenti di un investimento viene definita volatilità.

Semi-varianza e semi-deviazione standard

Dato che un’alta variabilità dei rendimenti sopra alla media è un evento auspicabile per l’investitore, una misura di rischio che alcune volte viene presa in considerazione è la semi-varianza (la semi-deviazione standard non è altro che la sua radice quadrata).

La semi-varianza si calcola utilizzando soltanto i rendimenti al di sotto del rendimento medio.

La formula di calcolo è uguale a quella della varianza e della deviazione standard con la sola differenza che i vari ri sono quelli inferiori a ȓ.

Questa misura di rischio ha una sua logica ma, nella pratica, non viene molto utilizzata: in una distribuzione simmetrica, i risultati che si ottengono sono uguali a quelli conseguiti con la varianza o la deviazione standard, dal momento che la semi-varianza è proporzionale alla varianza.

In un portafoglio ben diversificato l’assunzione di simmetria dei rendimenti è plausibile e il calcolo della semi-varianza o della semi-deviazione standard come ulteriore misura di rischio non permette di ottenere alcuna informazione aggiuntiva.

Indice di Sharpe

Più che una pura misura di rischio, l’indice di Sharpe (Sharpe ratio) è un coefficiente che quantifica la performance di un portafoglio corretta per il rischio.

La sua formula è:

\begin{equation} SR=\frac{r_p-r_f}{\sigma_p} \end{equation}

Dove:

rp = Rendimento del portafoglio.
rf = Tasso di rendimento a rischio zero.
σp = Volatilità del portafoglio.

Un portafoglio con un indice di Sharpe alto è invitante per l’investitore: denota un buon rapporto tra rischio e rendimento. L’indice di Sharpe viene anche definito come il rendimento ottenuto per ogni unità di rischio.

Non è tuttavia consigliabile basarsi esclusivamente sull’indice di Sharpe nella scelta di un portafoglio, in quanto il solo indice di Sharpe non permette di capirne la vera rischiosità: un valore alto dell’indice potrebbe essere generato sia dalla combinazione di valori elevati di rendimento e volatilità che da una combinazione di valori bassi.

Nel caso di rendimenti negativi si genera un fenomeno controintuitivo: scegliere il portafoglio con l’indice di Sharpe più alto significherebbe andare in direzione opposta a quella suggerita dal principio di razionalità dell’investitore.

Ipotizziamo di dover scegliere tra il portafoglio A, che offre un extra-rendimento rispetto al tasso a rischio zero del −5% e una deviazione standard del 10% e il portafoglio B, con extra-rendimento del −10% e una deviazione standard del 30%. L’indice di Sharpe del primo portafoglio è −0,50 mentre quello del secondo è −0,33: dovremmo perciò scegliere il portafoglio B, in quanto il suo indice di Sharpe è maggiore. Eppure, questa scelta è irrazionale: come faccio a preferire il portafoglio che ha performato peggio sia in termini di rendimento (più basso) che di volatilità (più alta)?

In casi di questo tipo alcuni ritengono che la scelta del portafoglio B sia comunque coerente: l’obiettivo dell’investitore è quello di ottenere il più alto rendimento possibile e il portafoglio più volatile è quello che offre le chances maggiori di tornare al più presto in territorio positivo.

Altri sostengono invece che questa interpretazione sia una forzatura e, in caso di rendimenti negativi, la regola di selezione andrebbe cambiata: il miglior portafoglio sarebbe quello con l’indice di Sharpe più alto in valore assoluto (nel nostro esempio il portafoglio A).

Il dibattito, tuttavia, è soltanto teorico e può avere senso solo se sono interessato a sapere quale portafoglio ha performato meglio in termini di indice di Sharpe nel passato.

Se il mio intento è quello di scegliere un portafoglio su cui investire in ottica futura, allora l’extra-rendimento e la volatilità non si conoscono e dovranno essere stimati. Nel caso in cui la mia stima prefiguri un extra-rendimento negativo, non avrò dubbi sul portafoglio da scegliere: sarà quello a rischio zero (ovvero quello che mi garantisce di ottenere il tasso di rendimento privo di rischio rf).

La scelta più razionale sarà proprio quella di non investire in alcuna attività rischiosa, in quanto l’investimento a rischio zero non solo mi offre un rendimento atteso superiore (dato che in questo caso l’extra-rendimento, ovvero rp − rf, è minore di −rf), ma mi assicura anche di ottenerlo con una volatilità nulla.

Value at Risk (VaR)

Il Value at Risk può essere definito come l’ammontare della perdita che siamo abbastanza sicuri che non sarà oltrepassata dal nostro portafoglio in un certo periodo di tempo.

Il VaR è caratterizzato da due parametri:

  • Il livello di confidenza α.
  • L’orizzonte temporale di rischio in base al quale il VaR viene calcolato.

Questi due parametri possono essere scelti in modo arbitrario oppure imposti da un organo regolatore, come nel caso dell’accordo internazionale conosciuto come Basilea II.

In mancanza di obblighi esterni, l’orizzonte temporale su cui calcolare il VaR dovrebbe corrisponde al periodo di tempo in cui un investitore si aspetta di detenere un certo portafoglio.

Ipotizziamo di avere un portafoglio del valore di 100.000 euro con un rendimento atteso a un mese dello 0,1% e una deviazione standard pari a 0,25%. Assumiamo inoltre che i rendimenti seguano una distribuzione normale, in modo da sapere che il 5% dei rendimenti più bassi che saranno realizzati dal portafoglio giacciono a una distanza di 1,645 deviazioni standard dal rendimento medio.

Posso quindi dedurre che nel 95% dei casi potrò aspettarmi un rendimento dal mio portafoglio nel prossimo mese non inferiore a ȓ − 1,65α = 0,1% − 1,65 * 0,25% = −0,3125%. Di conseguenza, dato che il valore del portafoglio è pari a 100.000 euro, nel 95% dei casi non mi aspetterò una perdita inferiore a 312,5 euro.

In altre parole, il portafoglio non dovrebbe perdere più dello 0,3125% nel prossimo mese, con un intervallo di confidenza del 95% (ci possiamo aspettare una perdita superiore allo 0,3125% con una probabilità del 5%). Questo −0,3125% è il VaR.

Si deve fare attenzione a non confondere il VaR con una perdita massima: il portafoglio potrebbe subire perdite superiori al VaR, seppure con una probabilità minore di quella utilizzata nel calcolo del VaR.

Uno dei limiti del VaR è proprio quello di non permettere di conoscere l’ammontare medio delle perdite superiori allo stesso VaR.

Il VaR può essere trasformato temporalmente moltiplicandolo per la radice quadrata del tempo: se ho un VaR giornaliero e lo moltiplico per la radice quadrata di 21 ottengo il VaR mensile (un mese borsistico è mediamente composto da 21 giorni borsistici); se ho un VaR mensile e lo moltiplico per la radice quadrata di 12 ottengo il VaR annuale.

Nell’esempio precedente, potrò ottenere il VaR annuale moltiplicando −0,3125% (VaR mensile) per la radice quadrata di 12, ottenendo un valore pari a circa −1,0825%.

Conditional Value at Risk (CVaR)

Il Conditional Value at Risk (CVaR), detto anche Expected Shortfall (ES) o Expected Tail Loss (ETL), permette di superare alcuni dei limiti del VaR.

Il CVaR consente di misurare il valore atteso della perdita che si registrerà qualora questa ecceda il VaR calcolato al livello di confidenza α.

Il Conditional Value at Risk è sempre maggiore del VaR e fornisce un’informazione più completa di quella offerta da quest’ultimo.

Come il VaR, anche Il Conditional Value at Risk è caratterizzato da due parametri: il livello di confidenza α e l’orizzonte temporale di rischio in base al quale viene calcolato.

Nell’esempio precedente, a fronte di un VaR del −0,3125% potremmo scoprire che il CVaR è del −0,65% (valore esemplificativo che non è stato calcolato in modo esatto).

L’informazione fornita dal CVaR è molto importante perché dà un’idea di quanto possiamo aspettarci di perdere in quel 5% di casi in cui la perdita ecceda il VaR.

Il CVaR permette di definire in modo più preciso la rischiosità: due portafogli potrebbero avere VaR identici ma CVaR diversi.

Così come nel caso del VaR, dobbiamo fare attenzione a non confondere il Conditional Value at Risk con una perdita massima, che potrebbe essere a esso superiore.

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Disclaimer

Tutti i tipi di investimento sono rischiosi. Il livello di rischio può essere più o meno alto e i rendimenti possono variare al rialzo o al ribasso. Ogni investimento è soggetto al rischio di perdita.
I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri.